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Eutanasia: la buona morte

In cammino per la legalizzazione

Tra Etica della Qualità della Vita e Etica della Sacralità della Vita

Si è, da pochi giorni, conclusa la raccolta firme per il referendum Eutanasia legale con lo scopo di legalizzare l’eutanasia in Italia. A tal fine, si rende necessaria l’abrogazione parziale degli articoli 579 e 580 del codice penale che puniscono chiunque acconsenta, su richiesta, a cagionare e a coadiuvare la morte altrui. Ciò che s’intende evidenziare è l’intima differenza tra omicidio ed eutanasia, termini spesso erroneamente accostati.

Eutanasia, nella sua accezione letterale, indica il conferimento della buona morte a chi si trovi in condizioni irreversibili di malattia. L’atto eutanasico, a differenza dell’omicidio, valuta il beneficio per la persona che lo subisce poichè considera la vita nel suo senso biografico. James Rachels, studioso di filosofia morale, mette in rilevanza l’accezione biografica del termine vita indicando con ciò un’esistenza in grado di essere realizzata. Quando questa sia ostacolata nel compimento di progetti o veda l’impedimento di rapporti interpersonali, a causa di irreversibilità patologiche, è un’esistenza in mero senso biologico.

Quanto sostenuto da Rachels è il fulcro di uno dei due grandi filoni su cui oggi si fonda il dibattito bioetico sull’eutanasia: l’Etica della Qualità della Vita. Secondo tale prospettiva, la vita non è inviolabile e dotata di valore in se stessa, ciò che conta è la sua qualità; essa, di conseguenza, risulta nella disponibilità dell’uomo, soprattutto quando non è più degna di essere vissuta. In altri termini, un paziente affetto da condizioni gravi di malattia può decidere di porre fine alla sua sofferenza.

A tale visione, si contrappone l’Etica della Sacralità della Vita altrimenti detta etica della indisponibilità della vita. Sostengono questa tesi, in genere, i seguaci della fede cattolica. Secondo questa prospettiva, la persona affetta da patologie irreversibili non può decidere di mettere fine alla propria esistenza perché essa ha valore intrinseco a prescindere dalla sua qualità e dalla sua realizzazione.

Vi è differenza tra eutanasia passiva ed eutanasia attiva?

Il codice di deontologia medica italiano, nella sua più recente versione, riconosce al paziente il diritto di rifiutare le terapie (Legge 219 del 2017). L’art. 32 stabilisce che nessuno può essere obbligato a un trattamento sanitario, ad eccezione del TSO.

In Italia, in alcuni casi, è consentita l’eutanasia passiva ovvero l’omissione di cure al fine di evitare l’accanimento terapeutico. Non è consentita l’eutanasia attiva (diretta e indiretta) ossia la somministrazione di sedativi che procurano la morte del paziente e lo spegnimento dei dispositivi che lo tengono “in vita”, senza i quali morirebbe.

I sostenitori dell’Etica della Sacralità della Vita sostengono vi sia differenza tra procurare la morte, somministrando un sedativo e lasciar morire omettendo le cure. Mentre nel primo caso, la somministrazione del sedativo è causa della morte, nel secondo caso, con l’omissione delle cure o la sospensione delle stesse, il paziente muore non a causa di queste ma per una condizione preesistente di malattia. Nel primo caso, è ritenuta causa della morte l’azione del medico o di chi aiuti il paziente a morire, nel secondo caso, la causa è da imputare alla sola malattia.

Non sono dello stesso avviso i sostenitori dell’Etica della Qualità della Vita secondo i quali non vi è alcuna differenza tra somministrare una sostanza e omettere delle cure. Ciò che rende l’azione della somministrazione di un sedativo o dello spegnimento di un dispositivo peggiore dell’omissione delle cure è solo una distorta connessione psicologica che vede nell’azione di procurare la morte un male peggiore di quello del lasciar morire.

Dalla tradizione ippocratica all’analogia tra eutanasia e nazismo

Questo modo di intendere, inconsciamente appreso, affonda, in buona parte, le sue radici in quella mentalità cristallizzata della tradizione medica ippocratica che potrebbe essere ben sintetizzata nel principio primum non nocere: dovere del medico è conferire beneficio al paziente e non arrecare alcun male. Provocare la morte o abbreviare la vita, anche nei casi di malattie gravi, vengono considerati mali da cui astenersi.

Nel XIX secolo, a ricalcare il principio ippocratico è l’opera di Thomas Percival, Medical Ethics.

La professione medica assume nuovi connotati con la nascita del movimento dell’eugenetica da parte di Francis Galton sino a giungere a una radicale trasformazione durante il periodo nazista. Secondo Galton, poiché i talenti sono riconducibili a combinazioni matrimoniali, è necessario un controllo sociale sulla riproduzione degli individui. A suo avviso, l’eugenetica porterebbe il vantaggio di avere sempre più nuovi talenti e, al contempo, di coadiuvare la natura nel suo processo di selezione naturale, non sopprimendo individui considerati “inferiori” ma evitando che si riproducano.

Il progetto di sterminio nazista va oltre la visione eugenetica galtoniana. È assodato che alla base dell’ideologia hitleriana vi fosse la volontà di un ritorno alla razza pura. Com’è noto, vennero proibiti i matrimoni misti, fu avanzata la sterilizzazione coatta nonché la soppressione di individui considerati inidonei alla vita. La professione medica si mise al servizio del sistema allontanandosi dal principio ippocratico primum non nocere.

Con la fine del nazismo fu necessario riconsiderare la vita umana. Furono emanati, a tal proposito, vari codici, tra i più noti ricordiamo il Codice di Norimberga nel 1947. Quindici medici nazisti furono processati a causa di esperimenti e torture inflitti ai danni dei prigionieri.

Poco dopo il processo, il medico americano Leo Alexander ritenne che i crimini nazisti potessero essere utilizzati per scoraggiare le proposte a favore dell’eutanasia. Suppose che, come il progetto hitleriano sui malati incurabili avesse condotto a un’estensione incontrollata, così la legalizzazione dell’eutanasia sarebbe potuta sfociare in una legittimazione dell‘eutanasia non volontaria (il paziente che non voglia sottoporvisi) e di quella involontaria (il paziente che non è in grado di esprimere giudizio).

I sostenitori dell’eutanasia si sono dovuti difendere dall’accusa di voler seguire l’esempio nazista ma l’analogia non regge: l’ideologia nazista si basava, sin dagli albori, sugli ideali di violenza e di morte, intenzioni e prospettive radicalmente opposte e per nulla assimilabili a quelle di coloro che difendono l’uccisione per pietà.

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di Michela Puppolo

Michela Puppolo. Vivo a Buonabitacolo, un piccolo paesino del Vallo di Diano, in provincia di Salerno. Dopo la maturità turistica, m’iscrivo alla facoltà di filosofia, per vocazione. Sono appassionata di montagna, di antropologia e di psicoanalisi. Amante delle lettere e della cultura locale, scrivo poesie e racconti narratimi, in italiano, talvolta in dialetto affinché il patrimonio lessicale dei paesi possa permanere nel tempo. Sono affascinata dalle storie di vita di gente della mia terra, dalle campagne, dai vicoli e dalle tradizioni locali, dalle quotidianità vissute in senso comunitario. Abbiamo tutti bisogno di sentirci comunità, di sentire in noi il senso di identità e appartenenza, non come cesura nei confronti della società e del mondo, al contrario, un’identità intesa come costruzione del sé che sappia, grazie alla consapevolezza delle proprie radici, stare nel mondo. Curerà la rubrica “Sentieri, Storie e Territori”

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