In occasione di un giorno di meditazione, come quello del Venerdì santo, tutta l’intensità e la drammaticità della sofferenza dell’uomo in due delle opere d’arte più suggestive del Quattrocento
Presso la chiesa di Santa Maria della Vita a Bologna giace un capolavoro del Rinascimento italiano: sei sculture in terracotta a grandezza naturale sono rappresentate provate dal dolore e disposte attorno alla figura esanime del Cristo morto. L’opera, si colloca tra gli anni sessanta e novanta del 1400 ed è attribuita a Niccolò d’Apulia, anche detto Niccolò dell’Arca, in memoria della realizzazione della cimasa dell’Arca di San Domenico a Bologna tra la fine degli anni sessanta e inizio settanta del XV secolo. Lo scultore immortala il momento della deposizione del Cristo, in cui Gesù viene staccato dalla Croce. Attorno al suo corpo sofferente si dispongono straziate dal dolore le figure di: Maria Cleofa, che accorre ai piedi di Gesù ponendo le mani in avanti, quasi nell’atto di proteggersi dallo spettacolo agghiacciante; vicino a lei Maria Maddalena, catturata in corsa mentre lancia un grido di orrore.

Le loro vesti si gonfiano al vento, i loro volti sono maschere di angoscia, dettagli che insieme acutizzano il senso di drammaticità; segue Giovanni, che porta una mano alla bocca quasi per frenare un pianto silenzioso; Maria Vergine, con le mani giunte che si piega in un gesto di lacerante sofferenza; vi è poi Maria Salomé, madre di Giovanni Evangelista, che in preda al dolore si stringe le gambe; infine, la figura di Giuseppe d’Arimantea, che secondo la tradizione evangelica staccò Cristo dalla Croce assieme a Nicodemo per trattare il corpo e seppellirlo nel sepolcro. Questi è l’unico personaggio che veste abiti rinascimentali, ha in mano il martello e nella cintola le tenaglie, e giace in ginocchio guardando l’osservatore con mera rassegnazione.
Lo strazio e l’afflizione appaiono sui volti di tutti: sembrano sentirsi le urla e i pianti che squarciano il petto, che stringono il cuore, che penetrano la mente, che spaventano l’anima. Grazie alla grande intensità che trasmettono, le sculture sembrano vive e al contempo immortalate in un dolore eterno.

Un altro celeberrimo Compianto è presente anche a Napoli: nella Chiesa di Santa Anna dei Lombardi è conservato il gruppo scultoreo in terracotta a grandezza naturale del Compianto del Cristo morto del modenese Guido Mazzoni, realizzato nel 1492 e di committenza di Alfonso II aragonese. L’artista, ispirandosi proprio all’opera bolognese di Niccolò dell’Arca, riprende la stessa iconografia e la stessa intensa atmosfera patetica e straziante con grande abilità e minuzia nella lavorazione della terracotta. Anche qui, grande realismo e intensa sofferenza. Cristo giace disteso, e di nuovo circondato dalle figure di Maria Vergine, raffigurata in preda ad uno svenimento, e assistita da Maria Salomé accanto a lei; Maria Maddalena, che accorre alla sua sinistra lanciando di nuovo un grido di dolore; vi è poi di fronte quest’ultima Maria Cleofa, questa volta rappresentata con le mani giunte; segue san Giovanni alla destra della Vergine; e, infine, partecipano alla scena le figure di Nicodemo a destra, e Giuseppe d’Arimantea a sinistra, che chiudono la composizione. Questi ultimi sono raffigurati rispettivamente con i volti di Alfonso II e Ferrante suo padre, al fine di onorare la casata regnante.
Queste due opere d’arte celeberrime, fanno capo a quella tradizione iconografica del compianto e del travaglio che gode di grande fortuna nel corso del XV secolo, grazie al moltiplicarsi di rappresentazioni ricche di pathos e disperazione: a partire da Giotto nella cappella degli Scrovegni, in cui appare un Compianto particolarmente struggente a cui anche gli angeli partecipano dimenandosi per il dolore, vige sempre più un richiamo alla rappresentazione dei deliri antichi pagani, in cui menadi e baccanti sono nuove muse ispiratrici per la composizione di figure contorte e in preda alla follia.
Il Compianto del Cristo morto di Niccolò dell’Arca e quello di Guido Mazzoni, rappresentano il dolore per la morte di Gesù: il suo sacrificio che la tradizione cristiana compiange ogni anno con l’avvento della Pasqua. Tuttavia, un dolore così forte, dovuto all’orrore e alla violenza dell’uomo, è qualcosa che purtroppo ancora oggi viviamo. Ecco allora che il dolore diventa così antico eppure così attuale. Proprio per questo, infatti, le sculture di entrambi i gruppi sembrano uomini e donne reali, vivi, ma immobili nel tempo, come per sottolineare l’immortalità della sofferenza umana di cui si fanno icone e alla quale l’uomo sembra essere destinato.

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