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Quelle statue provenienti dalla collezione Farnese

Abbiamo già parlato di alcuni tesori custoditi al MANN. Il Museo è così imponente e ricco che forse non basterebbe una giornata per esplorarlo tutto nel dettaglio, scovarne le curiosità, ammirarne i capolavori. Tra i reperti che sicuramente impressionano moltissimo il visitatore c’è la statuaria proveniente dalla Collezione Farnese

Lontano dalle orde di turisti che affollano Piazza del Plebiscito, dalla confusione del centro storico e dagli stereotipi su Napoli e i napoletani, il MANN è un esempio di efficiente meraviglia e meravigliosa efficienza.

Buona parte del piano terra dell’imponente stabile è occupato dalla statuaria: busti, ritratti, divinità catturano lo sguardo e la curiosità dei visitatori. Nella stessa sala, accanto ad altre, troneggiano le tre opere che – credo – più rappresentino la magnificenza di questo museo, tutte e tre facenti parte della Collezione Farnese, il cui iniziatore fu Papa Paolo VI (Alessandro Farnese) e che giunse a Napoli tramite – come abbiamo detto negli articoli precedenti – Carlo III di Borbone, che la ereditò dalla madre Elisabetta.

Il gruppo marmoreo de I Tirannicidi, databile al II d.C. e ritrovato a Villa Adriana a Tivoli, celebra Armodio e Aristogitone intenti a lanciarsi contro Ipparco, figlio dell’ateniese Pisistrato: nel 514 a.C., infatti, una rivolta libera la città dalla tirannide, facendo decadere i due fratelli Ippia e Ipparco. Le due sculture sono copie romane realizzate da originali greci in bronzo.

Il supplizio di Dirce, meglio conosciuto come Toro Farnese, rinvenuto presso le Terme di Caracalla e datato tra il II e il III d.C., è un gruppo scultoreo imponente, che raggiunge quasi i 4 metri di altezza. Tra le più grandi fra tutte quelle rinvenute, l’opera classica racconta il fatale epilogo di Dirce, moglie di Lico, re di Beozia. Ella, infatti, avendo per vent’anni sottomesso e maltrattato Antiope, si era guadagnata l’ira dei suoi due figli gemelli, Anfione e Zeto, i quali per vendetta la legarono a un toro imbizzarrito, causandone la morte.
La scena in marmo si costruisce tutt’attorno al toro, strumento dell’uccisione; i personaggi sembrano come rapiti in un vortice, che dà senso di movimento e profondità alla scena.

L’Eracle a riposo, o Eracle Farnese, è forse la statua che più lascia impietriti nella sezione Farnese. Se il Toro Farnese rappresenta un movimento disordinato e convulso, di contro l’Eracle immortala un momento di assoluta stasi, o meglio, di riposo. Ercole ci viene presentato come un eroe dai tratti umani quando, appena concluse le dodici fatiche a cui era stato sottoposto, appoggia tutto il suo peso sulla clava coperta dalla pelle del leone Nemeo e tiene dietro la schiena, nella mano destra, i pomi delle Esperidi, retaggio dell’ultima fatica. Sulla roccia sotto la clava un’incisione in lettere maiuscole greche attribuisce l’opera a Glicone di Atene.

Le immagini e alcune informazioni sono state riprese dal sito www.mann-napoli.it.

© IL QUOTIDIANO ONLINE • 2023 RIPRODUZIONE RISERVATA

di Rosa Elefante

Studentessa non ancora esaurita, idealista non ancora disillusa, sognatrice non ancora sveglia. Curerà la rubrica “Sentieri, Storie e Territori”

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