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“La zona d’interesse” meritava davvero l’Oscar?

Titolo originale: The Zone of Interest

Anno: 2023

Genere Drammatico, Storico

Produzione: Gran Bretagna, Polonia, USA

Durata: 105 minuti

Al cinema: 354 sale cinematografiche

Regia di: Jonathan Glazer

Attori: Christian Friedel, Sandra Hüller, Johann Karthaus, Luis Noah Witte, Nele Ahrensmeier. Lilli Falk, Ralph Herforth, Max Beck, Sascha Maaz, Marie Rosa Tietjen, Stephanie Petrowitz, Freya Kreutzkam, Ralf Zillmann, Imogen Kogge, Daniel Holzberg

Uscita: giovedì 22 febbraio 2024

Sembra musica sperimentale, ma è solo l’inizio della fine, di quella straordinaria catastrofe umanitaria chiamata Olocausto. È quel che si sente nei primi minuti del lungometraggio, una miscela assordante e dissolvente di voci gementi e urlanti, dapprima silenziosa e impercettibile poi sempre più intensa e disturbante, che s’intreccia sonoramente con il cinguettio di uccellini. Infatti, segue la sequenza sonora con schermo nero un’immagine quasi degna di Colazione sull’erba di Manet, dalla luce opaca e da quadretto di campagna in riva al fiume.

È quella Natura continuamente e ossessivamente presente dall’inizio alla fine in scene da dipinto troppo placido per non destare inquietudine, tra fiori e giardini (la sequenza zoomata su diversi esemplari parte bene, ma nasconde un evidente intento didascalico visivo), compartecipe però dell’astratta dissolvenza del mondo reale.

Infatti, rendendo omaggio al capolavoro della filosofa Hannah Arendt (La banalità del male), La zona d’interesse, film diretto nel 2023 da Jonathan Glazer, da poco trionfante agli Oscar come miglior pellicola straniera, è il manifesto dell’impassibilità, coerentemente rappresentato da una parte da una recitazione sempre reale ma chiusa nel proprio guscio di realtà alieno al mondo esterno, dall’altra da una fotografia dal taglio incredibilmente sempre dissolvente, allungato, con tanto di grandangolo in qualche occasione.

Lo spazio vitale viene dilatato come le note di musica sperimentale che impercettibilmente s’unisce ai suoni dell’orrore delle vittime di Auschwitz. Il lungometraggio, pertanto, termina con questa musica dissonante, tanto da apparire stonata. Tuttavia, a proposito del finale va detto che, fatta eccezione per la straordinaria resa dell’impassibilità emotiva e sentimentale di fronte ai resti di ebrei delle camere a gas mentre si opera con l’aspirapolvere, tale da lasciare occhi e bocca aperta, v’è un momento vacuo non giustificato col vuoto dominante o che si vuol trasmettere al pubblico. Insomma: il film sembra non avere una conclusione e v’è pure un minimo dettaglio irrealistico.

Se colleghiamo quest’ultimo aspetto a diversi bruschi stacchi di montaggio, alcune scene incastrate male e poco chiaramente (come la fiaba che prende vita e incontra la realtà dal giusto bianco e nero) e una lentezza non sempre motivata che, specie nella parte iniziale, si trascina anche la scrittura, capiamo bene che questo non è un film da Oscar, seppure un lavoro degno di nota da far discutere a lungo, di cui sarebbe andata fiera (forse) la stessa filosofa prima citata e dall’impianto sceneggiaturale coerente, se consideriamo la prima parte nella casa accanto al campo di sterminio e la seconda presso i luoghi di lavoro.

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di Christian Liguori

Classe '97, storico dell'arte e docente laureato in Archeologia e Storia dell'Arte all’Università degli Studi di Napoli Federico II. Dopo aver pubblicato il libro “Paolo Barca e la frantumazione della logica cerebrale umana”, un saggio di cinema sul regista Mogherini, ha maturato esperienze in svariati campi: dalla pubblicazione di articoli per un blog e una redazione online, a quella di filmati su YouTube e pagine Facebook; dalla partecipazione come interprete in spettacoli teatrali e cortometraggi, all’attivismo associativo per la cultura e l’ambiente. Già conduttore web-televisivo e radiofonico, è da sempre specializzato in recensioni di film. Curerà le rubriche "Le conversazioni di Liguori" e “Il Cinema secondo Liguori”.

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