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Conversazione con Enrico Giacovelli, il “critico della Commedia all’Italiana”

Ho iniziato ad amare il Cinema per i sentimenti paralleli, le vite parallele che ci permette di vivere

Enrico Giacovelli, storico e critico del cinema

Storico e critico del cinema, organizzatore di spettacoli e concerti, il torinese Enrico Giacovelli ama la settima arte nella misura in cui le vite sullo schermo possono affascinare.

Sin da bambino s’è approcciato al cinema nella misura della scrittura, e quindi iniziando a commentare e giudicare le pellicole.

Oggi può essere considerato un punto di riferimento imprescindibile per ricostruire la storia e la critica della commedia all’italiana, oltre che una voce assolutamente autorevole nell’ambito della storia del cinema italiano, pur avendo scritto anche di cinema americano. 

Quando ha sentito l’esigenza di giudicare i film?

«Quando ero ragazzino negli anni Sessanta cercavo di non perdermi neanche un film che davano alla televisione. Prendevo appunti di quel che vedevo per cercare di serbarmi in qualche modo memoria a riguardo. Ho decine di quaderni scritti a mano ormai illeggibili, scritti ingenuamente ma con grande passione».

Quando il cinema italiano, secondo lei, ha smesso di avere un aggancio con la realtà?

«Con la fine della commedia all’italiana vera e propria, di serie A, impegnata, ovvero negli anni Ottanta. Così il cinema è diventato in Italia più falso, più finto, televisivo».

Forse anche la realtà oggi è diventata totalmente falsa?

«Sì, oggi tutto è diventato ‘dittatura del mainstream e del pensiero unico’. In questo modo non esiste più l’opposizione in tutti i campi. Il cinema italiano che aderiva alla realtà prendeva sempre delle posizioni critiche, era sempre un cinema d’opposizione. Finita la possibilità critica, il cinema si è seduto su questa realtà finta e televisiva».

Cosa pensa dei comici italiani di oggi?

«Li trovo molto da cabaret, mi sembra che tendano quasi sempre ad ammiccare al pubblico con qualche tormentone, qualche strisciatina d’occhio. Non vedo più il grande comico».

Possiamo dire lo stesso anche sul discusso Checco Zalone?

«Credo abbia sempre un occhio rivolto al fatto di dover piacere. Un comico come lui, a mio parere, quando si mette davanti alla macchina da presa si chiede se quella determinata cosa da fare in scena possa piacere o meno al suo pubblico. La sua è una furbizia con origine televisiva, credo di poter sostenere, pur non conoscendolo personalmente. In ogni caso, anche quando un comico in generale non voglia essere troppo critico nei confronti del potere, finisce, in quanto comico, per esserlo. I grandi comici della commedia all’italiana, ovvero Sordi, Tognazzi, Manfredi, Gassman, per citarne alcuni, hanno iniziato dalle macchiette, ma hanno saputo poi sganciarsi anche grazie a dei registi che li hanno guidati con abilità. Ai comici di oggi manca il pubblico vero, che a questi giganti non è mancato. I comici di oggi s’esibiscono davanti ad un pubblico finto, televisivo».

Chi è secondo lei il più grande comico italiano che abbiamo avuto?

«Queste sono domande da milioni di dollari (ride). Personalmente, forse come comico in senso stretto è difficile non dire Totò, perché lui sapeva da solo su copioni spesso mediocri costruire una comicità enorme, anche dirompente, sempre di opposizione. È insuperabile ed è rimasto insuperato. Il bello è che interpretava semplicemente sé stesso».

Con l’attore e comico Maurizio Nichetti

Tra le sue diverse pubblicazioni, mi preme ricordare “Breve storia del cinema comico in Italia”, “Parola di comico”, ma soprattutto un caposaldo che mi è servito anche per la stesura della tesi triennale e di quella magistrale, ovvero “C’era una volta la commedia all’italiana”. In questo saggio lei è spesso provocatorio ed intenso, seppur con periodi brevi, che sembrano infliggere colpi o suscitare spunti interessanti nel lettore. Mi racconti qualcosa in più a riguardo.

«Questo libro l’ho pensato sulla scia della divulgazione, ovvero ritenendo che fosse assolutamente importante il concetto di ‘democrazia linguistica’, un concetto che manca generalmente ai critici o agli studiosi italiani. È un remake di un vecchio libro degli anni Ottanta nato da una tesi di laurea sulla commedia all’italiana all’Università di Torino con il professore Gianni Rondolino, il quale me la boicottò per il linguaggio provocatorio e ‘giornalistico’ a detta sua, con disprezzo. In quel testo e nel suo remake ho cercato di dire qualcosa di diverso, con spirito di verità».

Lei in “C’era una volta la commedia all’italiana” ha definito la grande regista Lina Wertmüller, da poco scomparsa, come qualcuno che è riuscito a sfondare grazie a un certo giro di conoscenze e a certi critici compiacenti. Mi spiega meglio quest’accusa di raccomandazione?

«A me personalmente non è mai piaciuta più di tanto, non la considero una grande regista, ma sicuramente era una regista dotata di talento. È riuscita, tuttavia, ad emergere per le amicizie con alcuni personaggi, tra cui soprattutto il critico Tullio Kezich, il quale era molto dentro l’ambiente cinematografico, anche grazie all’amicizia con Fellini ed altri registi. Io da questo mondo ho spesso preferito essere più appartato, anche per essere più libero nei giudizi».

Per concludere, quest’anno ricorre un doppio centenario: Ugo Tognazzi e Pier Paolo Pasolini. Perché è importante ricordarli ancora oggi?

«Pasolini perché è stato un intellettuale libero, piaccia o meno. Aveva una personale opinione su tutto, senza paura di esporsi. Aveva il coraggio delle idee. Tognazzi perché è stato uno dei primi attori della televisione quando la televisione era molto buona e coraggiosa, nonostante la censura democristiana della fine degli anni Cinquanta. Come attore era ricco di sfumature e come uomo non s’è mai preso troppo sul serio, e questo pure può insegnare qualcosa. È stato l’esempio perfetto di come si possa vivere lietamente e liberamente, pur facendo 150 film, come lui ha fatto».  

Grazie Enrico, una chiacchierata intensamente riflessiva, che si perde nella notte dei tempi!

«Grazie a lei, Christian».

Ringraziamo ancora Enrico Giacovelli per l’intervista e per le foto che ci ha liberamente e gentilmente concesso.

© IL QUOTIDIANO ONLINE • 2022 RIPRODUZIONE RISERVATA

di Christian Liguori

Classe '97, storico dell'arte e docente laureato in Archeologia e Storia dell'Arte all’Università degli Studi di Napoli Federico II. Dopo aver pubblicato il libro “Paolo Barca e la frantumazione della logica cerebrale umana”, un saggio di cinema sul regista Mogherini, ha maturato esperienze in svariati campi: dalla pubblicazione di articoli per un blog e una redazione online, a quella di filmati su YouTube e pagine Facebook; dalla partecipazione come interprete in spettacoli teatrali e cortometraggi, all’attivismo associativo per la cultura e l’ambiente. Già conduttore web-televisivo e radiofonico, è da sempre specializzato in recensioni di film. Curerà le rubriche "Le conversazioni di Liguori" e “Il Cinema secondo Liguori”.

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