Il sacrificio rituale: dono e rinuncia
In tutte le religioni è presente, in varie forme, il sacrificio: una particolare azione rituale legata all’offerta, reale o simbolica, di qualcosa che funga da intermediazione tra uomo e Dio. Henri Hubert e Marcel Mauss nel loro saggio sul sacrificio del 1898 evidenziarono la peculiarità comune a tutti i riti sacrificali: la cosa sacrificata è sempre consacrata, contornata cioè da un’aura di sacralità mediante la quale si rende possibile la connessione col divino.
Il sacrificio ha a che fare con la doppia dimensione della distruzione / donazione. Può essere interpretato, al contempo, come una rinuncia a qualcosa e come una donazione di qualcosa. L’offrire la vita è sicuramente il sacrificio più alto. Un’intima corrispondenza vige tra martirio e testimonianza. Martire, dal greco μάρτυς, significa testimone. Originariamente, il termine s’ascriveva all’ambito prettamente giudiziario; in seguito, con l’era cristiana tardo-antica, la parola assunse una connotazione religiosa: con martire s’intese colui il quale dona la propria vita per rendersi testimone di fede. Ogni martirio necessita di essere testimoniato ossia visto e riconosciuto da altri.
Nel contesto cristiano a presenziare al martirio v’era il pubblico del processo: il martire, che non ricercava la morte né vi si opponeva, veniva processato e condannato da un giudice, al cospetto di un pubblico. Nel contesto islamico contemporaneo, lo shahid (il martire comunemente inteso) si auto-immola, sacrificando la propria vita mediante un atto terroristico: “si fa saltare in aria” con ordigni esplosivi e armi. A differenza di quanto accadeva in ambito cristiano, la scelta dello shahid non è condizionata, è libera e volontaria dettata dal suo ideale di trascendenza e il suo pubblico è per lo più mediatico. Mentre per la cultura islamica lo shahid è un martire, per la cultura occidentale egli è un kamikaze, un suicida che mette in pericolo, col suo atto, la vita di altri.
Nell’ambito della tradizione musulmana, l’idea di martirio si sposa con quella di jihad il cui significato spazia da una lotta interiore che l’uomo conduce con sé stesso al fine di un’elevazione morale a una guerra vera e propria a testimonianza della propria fede. Colui che aspira a divenire martire musulmano si sottopone a un processo di sacralizzazione.
Lo shahid, prima di compiere il suicidio in nome della fede, si consacra mediante preghiere e sovente dopo aver ricevuto una benedizione da parte di un imam. Ha desiderio di eternità spirituale. Prevalendo sulla propria natura mortale con la distruzione del suo corpo, il martire islamico si fa presenza in spirito per compiere la sua doppia missione trascendente e terrena: giungere in paradiso e ridare ordine al caos del mondo che si avvia così all’essere retto da una maggiore forza spirituale grazie al dono/ distruzione della propria vita sacrificata.
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