Anno: 2014
Genere: Drammatico
Produzione: Italia
Durata: 100 minuti
Regia di: Alessia Scarso
Attori: Marco Bocci, Elena Radonicich, Barbara Tabita, Vincenzo Lauretta, Martina Antoci, Matteo Korreshi, Tuccio Musumeci, Lucia Sardo. Andrea Tidona, Marcello Perracchio, Leo Gullotta.
Quando a distanza di tempo rivedi un lungometraggio e ti sembra sempre la prima volta, o addirittura la commozione che ne deriva si moltiplica sempre più forte, allora vuol dire che quel che hai visto è proprio una potenza. È così che si presenta Italo, film del 2014 esordio alla regia della (anche) fotografa siciliana Alessia Scarso, il cui amore per la propria terra insulare qui s’avverte pienamente. L’intensità drammatica che questo lavoro raggiunge potrebbe condurre ad etichettarlo come Hachiko all’italiana, ma si commetterebbe in realtà un errore, poiché c’è tanto altro di diverso e di più.
Infatti, la Scarso, sebbene qui alle prime armi sulla carta, in realtà non sembra muoversi con poca disinvoltura, riuscendo a partire da una storia vera della perla barocca del ragusano (Scicli) per dimostrare, per mezzo del genere della fiaba cinematografica, cause e soluzioni rispetto a questioni strettamente legate alla pedagogia, all’infanzia, e quindi alla vita, come mutismo e bullismo. Tutto questo secondo un tradizionale collante dalle immemori origini mitiche e letterarie: il cane quale migliore amico dell’uomo che, con la sua fedeltà, unisce e sprigiona amore che poi viene condiviso. La voce narrante di Leo Gullotta si fa sentire raramente, lasciando che con giustizia la storia possa anche visivamente offrire a chi la guarda come gli occhi vorrebbero che le fiabe lette prendessero vita.
È abile la regista a ricreare il cinema dal mondo letterario, se pensiamo anche alla lunga sequenza dagli echi pirandelliani e verghiani dei bambini nella grotta d’evasione che porta al mare, appunto, e alla conoscenza dell’ignoto (il fantomatico Uomo dei cani). Insomma, Odisseo e Omero c’entrano sempre, se pensiamo che Argo, fedele suo cane, lo aveva aspettato al suo rientro. Altrettanto meraviglioso è il cane protagonista del film, il caro Italo, che sembra sia stato mandato dal cielo per umanizzare un abitato, ricacciando a sua volta l’umanità dalle diverse interiorità.
Anche da questo punto di vista la regista gioca con aspetti della psicologia, se consideriamo la sua grande maestria nell’accostare spesso immagini sequenziali di volti e sguardi che paiono frammenti emotivi dell’anima. E lo fa con assoluta armonicità, persino nel contrasto tra quelli in chiave comica e quelli in chiave drammatica. L’acme lo raggiunge in quella che forse è la scena più bella dal punto di vista emozionale: la simpaticissima (senza non contare Lucia Sardo!) Barbara Tabita sbraita teatralmente (come sempre!) per la sonora sconfitta alle elezioni, senza far ridere come nella normalità ma, per effetto incredibilmente straniante, facendosi partecipe indiretta di autentica commozione, poiché la sua sconfitta (complici le note di una colonna sonora meravigliosamente triste e allegra) precede la morte del cane della comunità.
Tuttavia, Italo non è privo di difetti, sebbene i grandi meriti e l’alto valore aggiunto dalla poca esperienza di chi lo dirige con enorme professionalità: infatti, a dispetto di un finale insieme lacrimosissimo ed enigmatico (nelle fiabe non mancano mai personaggi misteriosi, e qui non ce n’è uno solo!), non sempre si riescono ad ammorbidire con dolcezza (stando al consapevole intento autoriale) certi stereotipi della Trinacria, vi sono circa due bruschi stacchi di un montaggio quasi perfetto (unito ad una fotografia da scorcio continuo), alcuni attori ogni tanto sono protagonisti di lievi deficit e la sequenza pirandelliano-verghiana con la sua lieve lentezza (giusta comunque) stona un po’ rispetto all’organicità di una pellicola peraltro ciclica, se si osservano bene intro ed epilogo.
Italo, infatti, nasce da un progetto educativo consapevole, ma da lavoro didattico per insegnare bene, affetto e solidarietà tra pari e altri animali, finisce per incantare emotivamente ogni volta che lo si guarda.
E solo i capolavori, anche non privi di difetti, oltrepassano se stessi e, per citare parafrasandola la frase più significativa che qui si sente: tutto possono essere…
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