«Non credo di essere un artista, ma mi piace fondere corpo e parola nei miei lavori»
– Massimo Di Michele, attore e regista
Attualmente impegnato nel lavoro teatrale Riot Act di Alexis Gregory (in scena il 6, 7 e 8 Novembre al Teatro Belli di Roma) ma sempre e continuamente in gran fermento, l’attore e regista Massimo Di Michele vanta una straordinaria formazione presso il Piccolo Teatro di Milano, diretto da Giorgio Strehler.
Ha lavorato con un pilastro come Luca Ronconi, ha preso parte a diverse fiction televisive o film, come Loro di Paolo Sorrentino, ma è specialmente sui palcoscenici d’Italia che trova la sua linfa creativa, che lo conduce a sperimentare, fare e vivere di questo nobile mestiere.
Di cui, lui, non ama vantarsi o parlarne: scopriamone, insieme, le ragioni!
Tu sei un omosessuale dichiarato, lo spettacolo che metterai in scena ha a che fare con la tematica arcobaleno. Come credi sia cambiato il modo di rappresentare quest’orientamento sessuale a teatro e al cinema, in particolar modo in Italia?
«Ricordo che nel 1978 Ugo Tognazzi abbia recitato in un capolavoro quale Il vizietto, una commedia di un’eleganza ironica suggestiva. Penso ai film di Ozpetek che hanno fatto la Storia, perché in qualche modo, ed in tal senso, l’hanno cambiata. Tuttavia, credo che sia anacronistico oggi parlare di omosessualità: sarebbe più opportuno portare avanti un discorso sulla fluidità. Lo capisco sul campo, da insegnante di recitazione ho la fortuna di relazionarmi con giovani diciottenni che parlano di fluidità, a proposito dell’orientamento sessuale. I ragazzi di oggi sono molto più avanti di noi. Ho notato una certa evoluzione in teatro, rispondendo alla tua domanda. Questo me lo spiego con l’evoluzione stessa degli scrittori. Oggi il drammaturgo ha un punto di vista molto più contemporaneo. Un tempo l’omosessuale era una maschera, una macchietta sul palcoscenico. Oggi, invece, si fanno spettacoli teatrali che parlano di omosessualità con verità e naturalezza, senza filtri, com’è giusto che sia».
Paolo Poli, il magnifico Paolo Poli, ha anticipato tanto in questa direzione, non trovi?
«Ma Paolo Poli era una firma. Dicevi Paolo Poli e ti si apriva un mondo d’immagini, di colori, di piume, di paillettes, di pelliccette… Era una persona simpaticissima, un personaggio meraviglioso che ho avuto il piacere di conoscere. Però Paolo non parlava di omosessualità pur essendo omosessuale, trattava temi aulici, portava in scena una letteratura brillante sempre con grande ironia e leggerezza come solo lui sapeva fare, dopo di lui non c’è più nessuno… Nei suoi spettacoli non si parlava di omosessuali: si era omosessuali (ride)».
E tu, invece, come mai hai scelto di fare teatro?
«Sin da piccolo dicevo a mia madre che volevo fare l’attore. Ho vissuto nella mia città natale, Chieti, fino all’età di 19 anni. Mia madre rimaneva sconvolta, perché i miei genitori sono due operai, non provenivo da una famiglia di artisti o professionisti. La curiosità artistica non m’ha mai abbandonato, nelle recite scolastiche ricevevo diversi complimenti. Perciò, ad un certo punto ho iniziato a realizzare il mio sogno. Fare il regista mi diverte ancora di più, perché trovo che sia ancora più creativo del fare l’attore. Il mio stare dietro le quinte mi ha permesso di capire quanto sia fondamentale la ricerca sul corpo e la ricerca sulla parola».
Hai lavorato con Strehler e Ronconi: che ricordo hai di questi due artisti straordinari?
«Strehler era dotato di una straordinaria forza della natura. Riusciva a far recitare chiunque, era un autentico visionario dal cervello incredibile. Con Ronconi ho lavorato due anni. Ha avuto la capacità di farmi conoscere a fondo la parola: me l’ha fatta aprire come si fa con una finestra per dar luce ad una stanza…».
A proposito di corpo, invece, cosa ti ha spinto ad approfondirne la ricerca?
«Sono appassionato di danza contemporanea e di teatro danza. Non va dimenticata la lezione di Pina Bausch, un’icona necessaria. Ha creato un linguaggio. Un altro modello per me, scendendo in campo musicale stavolta, è Mina. Credo che sia la più grande cantante italiana che abbiamo mai avuto, per le sue doti straordinarie interpretative. Ho imparato a recitare ascoltando le sue canzoni».
Un attore, secondo te, è giusto che vada a dormire con il personaggio che deve interpretare o ha bisogno, ad un certo punto, di distaccarsi per evitare di esserne troppo preso?
«Io stacco. Portarsi dietro questo mestiere significa che t’identifichi ed identificarsi nel lavoro che fai è da stupidi. Io faccio l’attore, non sono un attore: è diverso. Nella vita non mi piace mai parlare del lavoro, infatti faccio fatica sempre a fare le interviste».
Sono onorato, allora, che tu abbia accettato di essere intervistato da me (ride). Ad ogni modo, per concludere, qual è il tuo sogno nel cassetto?
«Il mio sogno nel cassetto è continuare a fare il mio lavoro, ma bene, crescendo, continuando a vivere di questo mestiere: negli ultimi anni è diventato molto difficile vivere di questo mestiere».
Grazie Massimo, se non altro per la ricchezza e la pregnanza semantica e contenutistica delle tue parole, dei tuoi messaggi d’arte e di vita. Grazie!
«Grazie a te Christian, se non altro per avermi offerto questa possibilità».
Le foto sono state estrapolate dal profilo FB dell’artista.
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