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Conversazione con Riccardo Isgrò, l’attore-doppiatore professionalmente passionale

«Il mestiere dell’attore ti fa stare meglio: credo che tutti, prima o poi, metaforicamente debbano passarci la mano»

Riccardo Isgrò, attore e doppiatore

Siciliano, amante di un’autodefinizione autocritica di logorroico, convinto sostenitore dell’insegnamento della dizione a scuola e profondamente legato a sua nipote adolescente che considera suo massimo punto di riferimento, Riccardo Isgrò è un attore-doppiatore professionista, ma anche un uomo fortemente appassionato di quello che fa. 

Tanti spettacoli fatti o ancora in corso, ma anche cinema: si ricorda la sua importante partecipazione alla pellicola Terapia di Federico MocciaStefano Reali Giulio Manfredonia

Ma soprattutto, è opportuno non dimenticare il grande progetto, cui ha preso parte insieme ad altri 106 interpreti, Life, il primo film senza immagini: un’innovazione senza precedenti che ha riproposto in chiave contemporanea i tanto amati romanzi radiofonici degli Anni Cinquanta. 

Com’è nata in te la passione per la recitazione? 

«Inizialmente non volevo recitare, bensì stare dietro le quinte. Devo ringraziare mio padre che mi portava spesso al cinema. Da lui mi feci regalare una videocamera pensando di diventare regista. Eppure, non la usai mai. Iniziai a frequentare una scuola di regia, ma non mi sentivo a mio agio e così lasciai. A quel punto mi iscrissi ad un’accademia teatrale. Tremavo inizialmente e l’insegnante mi fece notare che la recitazione poteva essere il mio mestiere, perché stavo vivendo quelle emozioni». 

Allora possiamo dire che c’è della verità nel Teatro?

«Credo che dipenda dall’attore e dai suoi studi, dal suo rapporto con lo spettatore. Io ho incominciato con unTeatro Classico, mediante anche la tecnica dell’immedesimazione. Il Teatro Contemporaneo sicuramente s’ispira di più alla verità cinematografica. Il Teatro Classico, invece, è più aulico». 

E il teatro secondo Isgrò come dev’essere? 

«Oggi preferisco maggiormente confrontarmi con la verità, e quindi con un teatro più contemporaneo. Un testo deve trasmettermi un’emozione, altrimenti non posso mettere nulla in scena. Chiaramente la tecnica non deve mai mancare, ma mi devo emozionare ed incollare rispetto ad un personaggio, facendolo personalmente mio. Devo costruirmi delle immagini: ad esempio, qualche anno fa recitai in uno spettacolo tratto da Se questo è un uomo di Primo Levi. Era molto drammatico, avendo come tematica centrale la Shoah. Vedevo mia nipote, pensavo a lei, perché quando devo interpretare un personaggio penso a qualcosa che si possa avvicinare all’emozione del personaggio stesso di cui devo rivestire i panni». 

Qual è la differenza sostanziale tra recitazione e doppiaggio?

«Il doppiatore non esiste. Invece di stare su un palco o davanti a una macchina da presa, sta dietro a tutto nel vero senso della parola. Dunque, credo che il doppiaggio sia la parte più difficile per un attore. Perché se devi interpretare un personaggio fai tante prove e lo fai tuo. La verità diventa tecnica nella recitazione. Il doppiatore è un attore al cubo, perché deve dar vita a un’emozione che è già stata creata, restando sempre fedele al personaggio che va a doppiare, anche se deve in qualche modo e per certi aspetti farlo suo. Il doppiatore deve incollarsi all’attore che deve andare a doppiare. La magia del doppiaggio è che quando guardiamo un film dove, ad esempio, recita Brad Pitt,  ci dimentichiamo che non è quella la sua voce originale». 

Chi hai doppiato?

«Tra i vari voglio ricordare un personaggio a me caro della serie American Crime Story Impecheament(Steve Irons)».

Come si fa a restituire il movimento mentre si doppia se si doppia in una sala al chiuso, spesso seduti? 

«Tutto parte dalla respirazione, che non può prescindere dall’emozione. Tuttavia, la parte alta del corpo si può muovere. Se si deve doppiare un personaggio paraplegico, per esempio, ci si può sdraiare come escamotage tecnico. Da seduto non potrò mai avere la stessa respirazione di uno in quelle condizioni. Il doppiaggio è anche questo: sei fermo, ma dentro di te c’è una guerra e deve uscire fuori in qualche modo». 

Transitus di Andrea Lombardo è il corto di maggior successo che ti ha riguardato come attore e che ancora sta riscuotendo popolarità. Raccontami qualcosa a proposito del ruolo. 

«Lì ho dovuto implodere anziché esplodere, questo è stato difficilissimo. Il mio personaggio, infatti, veniva già da un exploit. È un personaggio senza fiato, schiacciato, che non sa come uscire dal vortice che lo risucchia. Mi è stato chiesto di non attingere da me stesso, di dissociarmi da me. Sul set ci siamo divertiti, ma non è stato facile, soprattutto perché abbiamo girato tutto in una sola giornata. Siamo in concorso per la sezione cortometraggi ai David». 

Ti rivedi dopo che hai recitato?

«No, e non mi piace neanche troppo parlare di me. Penso sempre che avrei potuto fare meglio». 

Tu sei un grande umile professionista del settore: continua così, che il meglio ci penso io ad augurartelo!

«Grazie Christian, per me è stato un enorme piacere essere intervistato. Un abbraccio!». 

Grazie all’artista per le fotografie forniteci. Per saperne di più sulla conversazione clicca ai due link:

https://fb.watch/gx9Y3JVG9v/

© IL QUOTIDIANO ONLINE • 2022 RIPRODUZIONE RISERVATA

di Christian Liguori

Classe '97, storico dell'arte e docente laureato in Archeologia e Storia dell'Arte all’Università degli Studi di Napoli Federico II. Dopo aver pubblicato il libro “Paolo Barca e la frantumazione della logica cerebrale umana”, un saggio di cinema sul regista Mogherini, ha maturato esperienze in svariati campi: dalla pubblicazione di articoli per un blog e una redazione online, a quella di filmati su YouTube e pagine Facebook; dalla partecipazione come interprete in spettacoli teatrali e cortometraggi, all’attivismo associativo per la cultura e l’ambiente. Già conduttore web-televisivo e radiofonico, è da sempre specializzato in recensioni di film. Curerà le rubriche "Le conversazioni di Liguori" e “Il Cinema secondo Liguori”.

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