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Conversazione con Sergio Martino, il regista più cult del cinema italiano

«È soddisfacente che Quentin Tarantino mi consideri suo maestro» – Sergio Martino, regista e sceneggiatore di cinema

© Cineuropa

Nella sua autobiografia “Sergio Martino. Mille peccati… nessuna virtù? si definisce regista trash emerito, poiché in seguito è stato rivalutato dalla critica sia in Italia che all’estero. 

Classe 1938, dalla commedia all’italiana alla commedia sexy, dal giallo al thriller al film d’azione, prima trash e poi cult, cinema di genere ma pur sempre Cinema, l’artista ne ha storie da raccontare, poiché fa parte di una speciale: il magico mondo dei cult del cinema italiano.

© InFormaCibo

Quando è nato l’amore per la settima arte e cosa l’ha spinta, in particolare, ad intraprendere la carriera di regista?

«Mio nonno materno era regista, si chiamava Gennaro Righelli, regista del primo film italiano sonoro. Da bambino ho incontrato nel suo ufficio sceneggiatori all’epoca molto giovani come Mario Monicelli, prima che diventasse regista anche lui. La mia famiglia era immersa nel cinema, cosicché iniziai a fare cinema pure io».

Ho una curiosità: come mai la scelta di adoperare talvolta degli pseudonimi? Ricordo che un regista della commedia sexy lo fece per una sua pellicola che fu un fallimento, come se se ne fosse vergognato. Si è ispirato a questo particolare avvenimento?

«Gli pseudonimi erano parte di quegli anni. Per fare cinema internazionale era molto importante, ad esempio, avere degli pseudonimi stranieri. L’ho fatto anch’io, ma non per una questione di vergogna, appunto. Era un modo per dare più appeal a film che avessero una connotazione internazionale. Ancora oggi i miei film gialli e d’azione hanno un certo riscontro e vengono visti in molti festival o università statunitensi, cosa che in Italia non accade».

A proposito di critica e pubblico, i suoi film sono stati spesso campioni d’incasso in Italia. Anche all’estero? Come ha digerito la svalutazione di molti suoi lavori bollati come trash dalla critica? È rimasto sorpreso dalla loro rivalutazione in cult da parte della stessa?

«In Italia purtroppo la critica bolla a priori come sottoprodotto tutto quel cinema che abbia carattere commerciale. Penso che la cosa più importante risieda nel fatto che un film debba piacere a tutti e non faccia perdere economicamente il produttore». 

Uno di questi è L’allenatore nel pallone, un must per chi ama il calcio. Mi racconti qualche aneddoto relativo al set, Lino, e soprattutto per non dimenticare la recente scomparsa del grande caratterista Camillo Milli.

«Questa pellicola mi ha dato molte soddisfazioni. Oggi è un cult nella memoria di molte generazioni. Rivedendolo non mi sembra chissà quale film di successo decennale particolarmente piacevole, ma comunque è un film di denuncia sul calcio, in particolare relativamente agli ngiuci che c’erano allora e che spero non ci siano più. Pochi si sono resi conto di questo carattere denunciativo. Camillo Milli era simpatico, ottimo come attore: un signore. È stato un dispiacere immenso che ci abbia lasciato. Il primo obiettivo della pellicola, tuttavia, era quello di far divertire».

© Italian "CuLT" Movies - Tumblr

Sempre a proposito di comicità, lei ha diretto in diverse pellicole interpreti di spicco che hanno fatto la storia del cinema italiano. Penso a Pozzetto, lo stesso Banfi, Pippo Franco, Dorelli, la Fenech, Gigi e Andrea. Le andrebbe di tracciarmi un piccolo ritratto di ognuno di loro dietro le quinte?

«Con tutti questi attori ho avuto quasi sempre ottimi rapporti durante le riprese, Edvige posso considerarla una mia sorella minore. Con Lino si scherzava tantissimo, Pozzetto da milanese soffriva un po’ di stare a Roma ed era un tantinello riservato. Con Pippo ottima collaborazione, soprattutto nei primi film. Dorelli era un po’ più schivo, ma in ogni caso con nessuno di loro sono stato mai in conflittualità. Con altri forse sì. Poi, Andrea è un fratellone, spesso mi capita di incontrarlo a Roma. Gigi lo vedo di meno non abitando a Roma. Anche nei miei film gialli, ove c’era tensione narrativa davanti la macchina da presa, dietro c’era sempre un’atmosfera distesa. Devo aggiungere, poi, di aver incontrato il regista de La forma dell’acqua Del Toro, che si è complimentato con me per avergli dato l’ispirazione con il mio lavoro di fine anni Settanta L’isola degli uomini pesce».

Ricchi, ricchissimi… praticamente in mutande: nel primo episodio ci s’imbatte in una vivace caricatura di nudismo e convenzioni sociali, libertà e ipocrisia, con protagonista un padre di famiglia non particolarmente abbiente. È tratto da una storia vera?

«L’idea dell’episodio della cabina al mare me la suggerì un mio montatore, Eugenio Alabiso, col quale ho ancora un ottimo rapporto d’amicizia. È tratto da una storia vera, sì: la sua. Quel film, infatti, aveva bisogno di storie che si raccontassero sia i ricchi sia i poveri».  

Occhio, malocchio, prezzemolo e finocchio: un cult da me particolarmente amato, l’ho trovato una satira sulla magia e sulla superstizione. Erano queste le intenzioni? Voleva forse comunicare che noi italiani siamo fin troppo superstiziosi?

«Siamo un Paese di superstiziosi, è vero, soprattutto al sud. Ma anche al nord, anche fuori Italia. È una caratteristica umana che dà più sicurezza. Anch’io nella mia vita ho avuto delle ritualità su alcune cose, forse per la mia origine partenopea. Ma è meglio non crederci troppo, o comunque: non è vero ma ci credo!».

© Il Foglio

Il suo ultimo film risale al 2008, mentre l’ultimo lavoro televisivo al 2012: a cosa si sta dedicando ultimamente?

«Mi è stato proposto di girare un altro film, ma ho un’età che non me lo consente. Alla mia epoca, infatti, ricordo che era molto faticoso affrontare un set, soprattutto con la dinamica della scenografia del mio tempo. Io ormai sono una persona che sta ampiamente dietro le quinte: nel salotto, sul divano».

Gli auguriamo meritato relax e lo ringraziamo per l’intervista e per quest’ultima fotografia del suo celebre libro, da lui personalmente scattata.

Ecco un estratto della piacevole conversazione:

https://youtu.be/mtU2-bMBqgE

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di Christian Liguori

Classe '97, storico dell'arte e docente laureato in Archeologia e Storia dell'Arte all’Università degli Studi di Napoli Federico II. Dopo aver pubblicato il libro “Paolo Barca e la frantumazione della logica cerebrale umana”, un saggio di cinema sul regista Mogherini, ha maturato esperienze in svariati campi: dalla pubblicazione di articoli per un blog e una redazione online, a quella di filmati su YouTube e pagine Facebook; dalla partecipazione come interprete in spettacoli teatrali e cortometraggi, all’attivismo associativo per la cultura e l’ambiente. Già conduttore web-televisivo e radiofonico, è da sempre specializzato in recensioni di film. Curerà le rubriche "Le conversazioni di Liguori" e “Il Cinema secondo Liguori”.

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